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09 marzo 2010

per un Paese solidale

"E' importante che questo documento venga conosciuto e diffuso. Se rimane nelle biblioteche o nelle riviste serve a poco o a nulla".

Così ieri - riferendosi al recente documento della Cei, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno - mi ha detto al telefono monsignor Michele Pennisi, vescovo di Piazza Armerina e segretario della Commissione Cei per l’educazione cattolica, la scuola e l’università, a margine di un'intervista realizzata per il prossimo numero di Aesse, il giornale delle Acli.

E allora anche io, nel mio piccolo, lo diffondo. Se volete potete leggerlo qui.

Ne parlo perché è un documento che nasce per commemorare il ventennale del primo documento di questo genere, allora pubblicato però "solo" dai vescovi del Sud Italia. Questa una prima nota di rilievo

Ne parlo perché con "il pretesto" di parlare del e al Mezzogiorno i vescovi intendono rivolgersi in realtà a tutto il Paese. E mi pare un momento strategico e opportuno per farlo.

E ne parlo sopratutto perché il testo esce dai cliché di prodotti analoghi degli ultimi 20 anni della Conferenza episcopale italiana, prolusioni settimanali incluse. Si è preferito dare maggiore forza al taglio pastorale e teologico che a quello socio-economico; tra l'altro, con tantissimi rimandi, anche di stile, all'ultima enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate, e con un ritorno in voga di alcuni temi e termini forti, come quello della giustizia o della "opzione preferenziale per i poveri", considerati da alcuni in senso dispregiativo, temi "conciliari". Elementi, questi ultimi, nient'affatto scollegati.

Invano la stampa nazionale ha cercato nel documento qualche presa di posizione "politicante" (come forse erano stati abituati a trovare). E questo ha destato un po' di effetto-spiazzamento. E fisiologicamente anche una rapida scomparsa dalle prime pagine.

I vescovi si rivolgono alla società civile e, con grande forza, alla comunità dei credenti, al popolo di Dio, risollevando questioni vecchie e nuove ma anche indicando una via progettuale, sia "laica" che strettamente spirituale.
Assumendosi delle responsabilità, ma anche mostrando alla gente, credo per la prima volta in un testo Cei, dei "buoni modelli", con il riconoscimento pubblico di don Pino Puglisi, don Beppe Diana e di Rosario Livatino in qualità di "testimoni di fede" (martiri, letteralmente).

Alla mia domanda, buttata lì senza troppa pretesa, se l'esplicita condanna della mafia, della mafiosità e della varie forme di illegalità (esercitata o anche solo blandita, giustificata), come "strutture di peccato", non sia di fatto ora diventata un'integrazione formale al principio non negoziabile della difesa della vita, dall'inizio alla fine, mons. Pennisi mi ha risposto: "Sì, certamente. La condanna della cultura di morte della mafia fa parte della promozione della vita. Non possiamo dire di difendere la vita se lo facciamo solo al suo inizio o solo al suo tramonto e non la difendiamo, non difendiamo la qualità della vita lungo il suo corso".

Sono contento. A me non sembra, alla luce della mia esperienza recente, una risposta tanto lapalissiana.

ps. sul perché mons. Pennisi sottolineasse l'importanza di diffondere questo documento, nel frattempo, succede di questo

(foto di simistef/flickr)

15 febbraio 2010

ma se non noi, chi?

(avvertenze per i lettori sensibili: questo è un post lungo e ad alto contenuto "moralista" rivolto in particolare a chi è cristiano e cattolico. Ma gli uomini e le donne di buona volontà non si sentano affatto esclusi)

Ma - stando così le cose - se non la avviamo, suggeriamo, ispiriamo noi cattolici la "riforma morale" di questo Paese mummificato, chi la dovrebbe fare? Quanto meno, abbiamo il dovere (missione?) di essere in prima linea su questo.

Altrimenti non siamo legittimati a storcere il naso o di ululare alla luna di fronte ai populismi dei Di Pietro, dei Beppe Grillo e dei Travaglio (peraltro cattolico) o di fronte ai massimalismi dei moralisti per antonomasia, ossia quelli di "certa sinistra", o di "certa magistratura", come amano chiosare "certi giornali". Tralascio per pura frustrazione le ipocrisie di tanti paladini ufficiali dei "principi non negoziabili".

Abbiamo il "dovere" di essere in prima linea perché la Chiesa come pochissimi altri ha avuto qualcosa di significativo da dire in Italia negli ultimi anni. Resta ancora da valutare serenamente se si è mossa bene, sia in una prospettiva pastorale che sociale. Se il vero obiettivo era ed è - come detto spesso negli ultimi mesi qua e là - rianimare una generazione di cattolici impegnati nella politica, la strada intrapresa non sembra la migliore.

Di sicuro, quando si attenuerà l'autocompiacimento intellettualistico, e un po' strabico, che ha segnato tutta la reggenza politica del cardinal Camillo Ruini e di chi lo ha eletto come guida carismatica, vedremo tutto con più chiarezza, con meno paure da "assedio" e con tanta più umiltà.

Abbiamo il "dovere" di essere in prima linea perché ce lo chiede il Vangelo.
E quale è la "buona notizia" che sarebbe da portare oggi da parte dei credenti, nella società, nelle istituzioni, nella politica e non ultima nell'economia (cfr. anche Charitas in veritate)?

Che certe cose... si possono fare senza accettare, con falso e spocchioso pragmatismo e cinica rassegnazione, il motto "così va il mondo"... questo si chiama fatalismo e non ha nulla a che fare con il Regno di Dio né con la furbizia degli evangelici serpenti (che senza la purezza delle colombe è un'altra roba).

Moralista? Sì, ma cristiano. Il "moralismo" dei cristiani è quello guidato da fede, speranza e carità (amore)... non da leggi esterne e/o fissazioni volontariste. Leggi senza misericordia per il peccatore, ma magari accondiscendenti con il peccato.

Come cominciare? Per esempio, l'essere davvero "chiesa", sempre, in ogni momento e situazione, anche personale, incoraggerebbe tanti cuori.

Uno dei problemi dell'agire ecclesiale oggi è che molte cose sono in fondo demandate alla "buona volontà" del singolo battezzato, mentre su altre spesso viene usata come "arma di aggregazione" il valore dell'unità dei credenti.

A livello sociale, siamo chiesa (intruppata?) solo quando ci riuniamo in piazza per un Family day? O solo quando in parrocchia ci si chiede il grande sforzo di volontariato (part-time) per questa o quella emergenza?

Io vorrei essere e sentirmi Chiesa in tutte le scelte "contro corrente" a cui il Vangelo mi chiama quotidianamente (scelte familiari, lavoro, relazioni, vita sociale e pubblica) come battezzato. Sapere che - dai grandi compiti istituzionali alle mille pratiche quotidiane - se "amo", se "ho a cuore l'altro che non conosco", invece di sfruttare, dominare, abusare, rubacchiare, sfurbazzare, raggirare, evadere, concutere etc etc ho accanto la mia Chiesa che mi dice "sono con te", fino alle estreme conseguenze.

Una solidarietà fraterna che può essere ideale e concreta allo stesso tempo. Potrei fare decine di esempi (poco evidenti, in genere), ma mi piacerebbe che venissero dai lettori.

E questo, fino alle estreme conseguenze.
Ché se fai una cosa "cristiana" c'è il forte rischio che in effetti non te la passerai benissimo nel mondo. Ma almeno non sarai solo, e sentirai con più forza (sperando di essere già "salvo" in Cristo) che vale la pena.