30 luglio 2013

tutti dicono "auariù"

Un bel post di un amico e collega, Davide Maggiore, mi ha ricordato questo mio breve articolo dell'estate del 2004. Lo scrissi prima di aver un blog e oggi lo voglio recuperare. Davide mi ha ricordato un piccolo pezzo della mia storia.


Cammino a testa bassa su uno dei “viali” polverosi che solcano Korogocho, la baraccopoli (lo slum) di Nairobi, divenuto un simbolo globale del degrado e della miseria degli uomini (soprattutto di quelli che ne permettono l’esistenza). Il paradigma di tutte le baraccopoli dell’Africa (di cui si parla quasi mai). E il luogo simbolo della predicazione e del grido missionario di padre Alex Zanotelli, che, volente o nolente, è divenuto un po’ un simbolo anche lui.

Cammino a testa bassa perché sono stanco. È tutta la mattina che, con una ventina tra giornalisti e fotografi, ci aggiriamo indiscreti come un gruppo di giapponesi al Bioparco di Roma o, se volete, un po’ cinici e distanti come la corte del primario al capezzale del malato in ospedale … qualcuno che conosce ed è conosciuto (ed accettato) dalla gente, ci guida a tappe in quello che Zanotelli ha chiamato “l’inferno”, uno spazio rimosso dalle coscienze dagli uomini (ma, è il caso di dire, non da Dio), un’arena dove la tensione si taglia a fette e la violenza è il linguaggio della quotidianità. È faticoso tenere la concentrazione, controllare i propri gesti, i propri sguardi, affinché nessuno si senta troppo offeso dalla nostra presenza a tal punto da fare qualcosa … sento che hanno ragione.
Cammino a testa bassa perché il sole è uscito finalmente a riscaldarci affacciandosi tra le nuvole, una specie di squarcio proprio sopra Korogocho, un segno, come in un perfetto copione di una storiella a lieto fine. Ma è solo sole. E polvere.
Cammino a testa bassa, soprattutto per l’imbarazzo, per la vergogna di guardare in faccia anche uno solo delle decine di volti che ho intravisto e che resteranno solo un ricordo una volta salito sull’aereo che mi porta a casa. Poche ore non sono abbastanza per mettersi dritti sulla schiena e senza pericolosi e comodi complessi di colpa di fronte alla durezza della vita di questa gente.

Ci sono tantissimi bambini. Uno scintillio di occhi e curiosità che fa pensare a quanto sia forte e tenace la vita, anche qui. Forse guardano le nostre cose (siamo tutti, nel limite del possibile qui dove siamo, vestiti e equipaggiati in modo molto sobrio, a parte le macchine fotografiche nascoste sotto le giacche). Forse vorrebbero solo domandarci da dove veniamo e perché siamo lì sotto casa loro. Sta di fatto che nessuno stende le mani, nessuno ci chiede niente, né denaro né compassione. Qualcuno si avvicina per salutare e chiede “come stai?”, how are you? Ora mi sembra ci accomunino poche parole di un inglese scolastico e io tento di rispondere secondo l’etichetta, come fossi in un pub inglese; quasi sorpreso che anticipino la sola domanda che saprei fargli… Così uno, e poi due, tre bambini di seguito; e poi altri si uniscono, ci seguono. Così quasi tutte le porte delle baracche si aprono a cascata mentre risaliamo il viale e la domanda di uno diventa il coro, alto, forte, continuo e, mi pare ora, irridente di tantissimi occhi… Auariù? Auariù? Auariù? Auariù? Non smettono.

Abbasso di nuovo la testa, tiro dritto. Mentre l’eco si allontana e mi infilo nel pulmino, ho capito. Non è un saluto, ma una sentenza: questi sono i bianchi Auariù, quelli che vengono a vedere “lo spettacolo”, ti chiedono “Come stai?” e poi se ne vanno per sempre.

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