"Nella Rete le persone fanno e vedono cose terribili"
"Nella Rete le persone fingono di essere altro"
"La Rete è pericolosa, insidiosa, piena di rischi"
Sono tutte affermazioni vere. E, in fondo, angoscianti.
Ma se sostituiamo alla parola "Rete" la parola "Vita", cosa cambia?
La Rete fa paura perché costringe - per esserci pienamente - a esporsi davvero e in modo coerente; e non perché consente di alienarsi, nascondersi e fingersi altri.
Perché la Rete "non dimentica". Perché la Rete può celare ma anche svelare.
E di fronte a questo, la sfida è prima educativa e spirituale che morale e psicologica.
Il dualismo che disintegra
Ci penso da qualche giorno, quando ho avuto occasione di ascoltare due relatori di alto livello in una conferenza organizzata dal Copercom: Tonino Cantelmi, psichiatra e psicoterapeuta; e p. Antonio Spadaro, gesuita, "cyberteologo" e direttore della rivista La Civiltà Cattolica. Ovviamente, si parlava di internet e dintorni.
Il dualismo digitale - per cui esisterebbe un mondo “reale”, mediamente sano, e un mondo “virtuale”, mediamente falso e malato - non è ancora stato superato. Dire che le relazioni "fisiche" non possono essere sostituite e che sono "meglio" delle relazioni attraverso la Rete è sano e ovvio, ma resta in questa epoca una lettura dualista.
Mi risuona una delle riflessioni di p. Spadaro, che traduco così: proprio il mantenimento di questa divisione, apparentemente rassicurante e moralmente soddisfacente, può generare tanto disagio, in particolare nei cosiddetti "migranti digitali", ossia chi è nato analogico ed è inciampato nel digitale nel cammino della vita.
Ma a ricaduta, sopratutto se la mediazione degli educatori non è orientata alla'integrazione delle identità, ed è più impaurita che responsabile e competente, si genera disagio anche nei "nativi digitali".
Obiezioni e domande
Si tratta certo di riflessioni aperte, di sfide. Ma alcune delle paure più comuni, degli allarmi e delle obiezioni portate di fronte alla progressiva penetrazione della Rete e delle sue "app-endici" nella vita quotidiana suonano sempre più contraddittorie.
Immaginate tutte le obiezioni che vi vengono in mente, incluse quelle che sentite più vostre e più vere.
La chiave intepretativa per smontarle o relativizzarle potrebbe essere sempre la stessa: ma perché, cosa succede di diverso nella vita e nelle relazioni fisiche, diciamo, reali?
Mi limito a citare a mo' di esempio una obiezione tipo, un po' autoreferenziale, da parrocchia: "Va bene la Rete, le potenzialità, etc etc ma la comunione vera però si può vivere solo dal vivo, nelle relazioni personali".
Ok, bene, giusto.
Ma sono più in comunione con Tizio, amico d'infanzia, e residente all'estero, con cui scambio tre email l'anno ricche di esperienze vissute insieme, di vita vera e di affetto reciproco e magari una videochat via Skype? O con Caio, qui di fronte a me che mi parla di comunione, mi sorride con una cordialità affettata e tre secondi dopo parla male di me al primo che passa?
Sono più in comunione con chi, magari non ho mai incontrato, ma scrive che sta pregando per me? O con chi fa con me la Comunione tutte le domeniche ma in 10 anni non si è mai fermato a chiedermi "come stai?
Quindi...
Dove e quando sperimentiamo e comunichiamo di più ambiguità e falsità?
Quanto e come ci nascondiamo o ci mascheriamo davvero nella vita fisica?
"Nella Rete le persone fingono di essere altro"
"La Rete è pericolosa, insidiosa, piena di rischi"
Sono tutte affermazioni vere. E, in fondo, angoscianti.
foto flickr/mallix |
Ma se sostituiamo alla parola "Rete" la parola "Vita", cosa cambia?
La Rete fa paura perché costringe - per esserci pienamente - a esporsi davvero e in modo coerente; e non perché consente di alienarsi, nascondersi e fingersi altri.
Perché la Rete "non dimentica". Perché la Rete può celare ma anche svelare.
E di fronte a questo, la sfida è prima educativa e spirituale che morale e psicologica.
Il dualismo che disintegra
Ci penso da qualche giorno, quando ho avuto occasione di ascoltare due relatori di alto livello in una conferenza organizzata dal Copercom: Tonino Cantelmi, psichiatra e psicoterapeuta; e p. Antonio Spadaro, gesuita, "cyberteologo" e direttore della rivista La Civiltà Cattolica. Ovviamente, si parlava di internet e dintorni.
Il dualismo digitale - per cui esisterebbe un mondo “reale”, mediamente sano, e un mondo “virtuale”, mediamente falso e malato - non è ancora stato superato. Dire che le relazioni "fisiche" non possono essere sostituite e che sono "meglio" delle relazioni attraverso la Rete è sano e ovvio, ma resta in questa epoca una lettura dualista.
Mi risuona una delle riflessioni di p. Spadaro, che traduco così: proprio il mantenimento di questa divisione, apparentemente rassicurante e moralmente soddisfacente, può generare tanto disagio, in particolare nei cosiddetti "migranti digitali", ossia chi è nato analogico ed è inciampato nel digitale nel cammino della vita.
Ma a ricaduta, sopratutto se la mediazione degli educatori non è orientata alla'integrazione delle identità, ed è più impaurita che responsabile e competente, si genera disagio anche nei "nativi digitali".
Obiezioni e domande
Si tratta certo di riflessioni aperte, di sfide. Ma alcune delle paure più comuni, degli allarmi e delle obiezioni portate di fronte alla progressiva penetrazione della Rete e delle sue "app-endici" nella vita quotidiana suonano sempre più contraddittorie.
Immaginate tutte le obiezioni che vi vengono in mente, incluse quelle che sentite più vostre e più vere.
La chiave intepretativa per smontarle o relativizzarle potrebbe essere sempre la stessa: ma perché, cosa succede di diverso nella vita e nelle relazioni fisiche, diciamo, reali?
Mi limito a citare a mo' di esempio una obiezione tipo, un po' autoreferenziale, da parrocchia: "Va bene la Rete, le potenzialità, etc etc ma la comunione vera però si può vivere solo dal vivo, nelle relazioni personali".
Ok, bene, giusto.
Ma sono più in comunione con Tizio, amico d'infanzia, e residente all'estero, con cui scambio tre email l'anno ricche di esperienze vissute insieme, di vita vera e di affetto reciproco e magari una videochat via Skype? O con Caio, qui di fronte a me che mi parla di comunione, mi sorride con una cordialità affettata e tre secondi dopo parla male di me al primo che passa?
Sono più in comunione con chi, magari non ho mai incontrato, ma scrive che sta pregando per me? O con chi fa con me la Comunione tutte le domeniche ma in 10 anni non si è mai fermato a chiedermi "come stai?
Quindi...
Dove e quando sperimentiamo e comunichiamo di più ambiguità e falsità?
Quanto e come ci nascondiamo o ci mascheriamo davvero nella vita fisica?
2 commenti:
Cari e care, il problema, come evidenziato da una teologa, Serena Noceti, è di non confondere comunione con comunità. La prima si può avere anche con chi non conosciamo, la seconda invece solo in gruppi non più grandi di 20-30 persone, che condividano una qualche forma di vita comune. Dunque non è meglio l'una o l'altra, ma sapere che non sono la stessa cosa e che hanno dinamiche molto diverse.
Grazie comunque al moralista, che ci punzecchia per una maggiore intelligenza della vita.
Molto vero e molto giusto.
In effetti, è evidente che quello che siamo nella Rete non è "tutto quello che siamo" nella realtà di tutti giorni; ma non è detto che nella realtà di tutti i giorni "siamo davvero" tutto quello che siamo.
La Rete, in questo senso, può darci e far si che diamo un "di più", insospettabile agli occhi dei più.
Lo dico io che, con la Rete ho un rapporto non proprio conflittuale: ci sto abbastanza volentieri, con ampie parentesi di disintossicazione, anche se recenti malaugurati incidenti (che, come ben sai, mi obbligano a stare in panchina) mi hanno posto qualche ragionevole dubbio (in cui la asimmetria tra gestori e fruitori gioca un ruolo non marginale...).
Ma post come il tuo ti ripagano.
Grazie!!!!!!!!!!!!!!!
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