24 gennaio 2012

la disperazione non è l'ultima parola

"Chi è felice parli, chi è triste urli, chi è disperato taccia". Ho letto e meditato queste parole e con esse il romanzo di Maurizio Cotrona, Malafede.

Giordano, il protagonista, si sente un giovane uomo realizzato. Addirittura fortunato. Il suo appartamento fresco di stucco nella promettente e impeccabile periferia romana di Malafede, il suo posto "quasi" fisso al ministero e una vita da emigrato in carriera che gli sembra quadrare.

Però vede tristezza e disperazione tutto intorno: in suo padre, nella sua compagna di vita, nella collega che condivide con lui la stanza in ufficio, nella signora del piano di sotto e nei condomini che scrivono messaggi e lanciano anatemi sullo specchio dell'ascensore. E avvia una personalissima inchiesta sulla felicità.

Giordano si sente il salvatore designato di chi gli sta più vicino, dalla petulante fidanzata al pendolare che condivide con lui il treno quotidiano (per inciso, il mio ndr).

Ma piano piano, mentre il mondo che pensava di controllare tutto intorno a lui si decompone e si sfilaccia, scoprirà che la domanda che pone agli altri è quella cui lui stesso per primo non sa rispondere. Che la felicità che non trova è la sua.

Giordano è tragicamente disperato e ha imprigionato anche i suoi affetti in questa disperazione. Ma non lo sa.

Lo riportano alla consapevolezza, alla vita e all'amore la sapienza del suo corpo - che cede di schianto e lo costringe e prendere atto della sua condizione - e la memoria, che sana una ferita fondante e con essa una relazione, quella con una madre che è morta lasciandolo piccolo e solo, persa nell'oblio e nella negazione.

E ritornando lui alla vita, più umano e fragile e insieme più libero, misteriosamente prendono vita e corpo intorno a lui anche quelle persone care che già gli sembravano morte.

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